Paolo Borsellino, oggi il suo anniversario di morte. Oggi, 19 luglio 2022, cade il 30esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui perse la vita il magistrato Paolo Borsellino, assieme a cinque uomini della sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).
La strage di via D’Amelio avvenne a distanza di soli 57 giorni dalla strage di Capaci: Paolo Borsellino fu ucciso due mesi dopo Giovanni Falcone.
Ripercorriamo sia il rapporto tra i due magistrati che alcuni dei momenti più difficili della carriera di Borsellino, tra ostacoli e difficoltà che chi di dovere avrebbe dovuto e potuto evitargli.
Paolo Borsellino: il soggiorno, forzato e pagato, all’Asinara.
Nella lontana estate del 1985 la mafia uccise il poliziotto Ninni Cassarà, stretto collaboratore del pool antimafia. Per ragione di sicurezza, Falcone e Borsellino – assieme alle loro famiglie – vennero velocemente trasferiti presso la foresteria del carcere dell’Asinara, dove lavorarono all’imminente Maxi Processo.
Alla fine, lo Stato presentò pure il conto del soggiorno. Come a due turisti qualsiasi. “Pagammo, noi e i familiari – ricordò Borsellino – diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, avevamo cose più importanti da fare”1https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lestate-allasinara-di-borsellino-e-falcone.
La storia del pool Antimafia.
Mai come per la preparazione del maxiprocesso di Palermo si avvertì la necessità di un pool.
Palermo, tra il 1981 e il 1983, è teatro della sanguinosa seconda guerra di mafia, che conta oltre 600 morti. In questo contesto Cosa Nostra si macchiò di numerosi omicidi eccellenti di politici, giudici, giornalisti e funzionari delle forze pubbliche impegnati nella lotta alla mafia: il vicequestore Boris Giuliano; il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella; il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo; Pio La Torre, segretario regionale Pci.
Il processo si tenne in primo grado a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987. Si concluse con 346 condanne, 114 assoluzioni, 19 ergastoli e un totale di 2665 anni di reclusione.
Il merito della progettazione del pool antimafia per il maxi-processo di Palermo va al magistrato Rocco Chinnici, il quale inserì anche due giovani giudici: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fanno parte del pool anche Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Rocco Chinnici non prese parte al processo. Venne assassinato dalla mafia il 29 luglio 1983, in un tragico attentato in cui persero la vita due membri della scorta e il portiere della sua abitazione, mentre rimase vivo per miracolo l’autista. Queste condanne per l’omicidio di un giudice decretarono la condanna a morte di un altro magistrato. Antonio Saetta, che aveva inflitto le condanne per l’omicidio di Chinnici, fu assassinato in un attentato il 25 settembre 1988. Tornando al pool, con la morte di Chinnici il comando passa a Caponnetto. Ma il team non dura a lungo, sotto gli attacchi duri ed infamanti che provengono da ogni dove: stampa, politica, mafia, magistratura stessa.

Borsellino e Falcone. L’esperienza del pool, la consapevolezza del pericolo.
Quando Borsellino incontrò Falcone, all’ufficio istruzione di Rocco Chinnici, si trattò – in realtà – di un ritorno. I due erano cresciuti nello stesso quartiere popolare, la Kalsa, sul lungomare di Palermo. Paolo aveva motivato la scelta di non abbandonare la trincea così: «Qualcuno lo deve fare questo lavoro e siccome ci siamo noi, lo facciamo senza esitare». Così i due divennero un binomio inscindibile: Falcone lo stratega; Giovanni il coordinatore, quello che faceva girare gli ingranaggi coi tempi giusti, capace di tenere in mente nomi, cognomi, date e fatti. Una squadra perfetta, un pool completato da Giuseppe Di Lello, Leonardo Guardotta, Giuseppe Barrile e “protetto” dalla immensa forza di un “piccolo” capo, il consigliere Antonino Caponnetto.
Ma Borsellino era capace anche di regalare relax e buonumore alla squadra. Lui e Falcone mettevano in scena siparietti rimasti nella memoria di tutti. Scherzavano, ironizzavano. Anche sulla morte: Paolo sosteneva di essere tranquillo perché mai lo avrebbero ucciso prima di Falcone. E Giovanni – in un gioco macabro, ma utile per esorcizzare – gli chiedeva le chiavi della cassaforte dove tenevano le carte del maxiprocesso, perché «se ti ammazzano come faccio a recuperare gli atti per chiudere l’inchiesta?»2Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia, a cura di Claudio Camarca, AA VV, Castelvecchi Editore, 2013

Paolo Borsellino: una colpa persino l’esperienza nei processi di mafia.
Paolo Borsellino, nel 1986, chiese e ottenne il trasferimento dalla procura di Palermo a quella di Marsala, carica contesa con Alcamo, collega più anziano ma meno esperto di mafia. Contro il magistrato si scagliò lo scrittore Leonardo Sciascia, a causa…
…della “diversa anzianità”, che vuol dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel “superamento” (pudicamente messo tra virgolette), che vuol dire della bocciatura degli altri più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Il dottor Alcamo – che par di capire fosse il primo in graduatoria – è “magistrato di eccellenti doti”, e lo si può senz’altro definire come “magistrato gentiluomo”, anche perché, con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna “a lui assolutamente non imputabile”: quella di non essere stato finora incaricato di processi di mafia. Circostanza “che comunque non può esser trascurata” […]
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di “magistrato gentiluomo”, c’è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?3Leonardo Sciascia, “I professionisti dell’antimafia”, Corriere della Sera, 10/08/1987
Il mistero dell’agenda rossa.
Uno tra i più grandi misteri, che continua a gettare ombre allarmanti, è la sparizione di un inestimabile documento da cui Borsellino non si staccava mai e che aveva con sè quando morì: la sua fedele agenda rossa. Permangono
[…] pesanti sospetti sulla sparizione di questa sorta di brogliaccio – l’ agenda era voluminosa – nel quale il giudice segnava note e appunti sulle inchieste che aveva in mano. Usava un suo codice segreto, con lettere e numeri sistemati in un certo modo. Il diario rosso non è stato trovato fra gli effetti personali recuperati in via d’ Amelio: nella borsa c’ era invece l’ agenda marrone, quella con i numeri di telefono. Resta il sospetto di una incursione mafiosa per impadronirsi del diario4Umberto Rosso, “Un disegno per accusare il killer”, La Repubblica, 06/12/1992″.
Consolata Maesano