Una vita tanto breve quanto dolorosa quella di Rita Atria. Un’esistenza che sembrava già segnata dalla nascita. Tante scelte, una più difficile dell’altra. La solitudine, il disprezzo, i dogmi mafiosi più forti persino della morte. Un tuffo nel vuoto come gesto estremo, per disperazione per la perdita dell’unico faro in un abisso di disperazione.
Rita Atria nasce a Partanna, nel trapanese, in una famiglia mafiosa: perde da piccola il padre Vito in un agguato e successivamente anche il fratello maggiore Nicola, punto di riferimento imprescindibile, in modalità simili. Non le resta che la cognata Piera: quando quest’ultima (presente all’omicidio del marito) inizia a collaborare con le forze dell’ordine, la giovane Rita ne segue l’esempio. Nel nuovo e decisivo ruolo di testimone di giustizia, Rita si lega parecchio al giudice Paolo Borsellino, che raccoglie i suoi racconti sulla criminalità del Belice e diviene per lei come un padre. La diciasettenne non regge all’ennesima perdita e, una settimana dopo la strage di via d’Amelio, si getta dal sesto piano di un palazzo di Roma, dove era stata trasferita in gran segreto.
Rita non riuscì a riposare neanche dopo la morte: sua madre, che l’aveva già ripudiata per le sue scelte, fracassa a martellate la lapide della figlia.
Leggere le cronache del suo ultimo viaggio lascia addosso una tristezza abissale:
Ci sono dodici donne che portano a spalla una bara nel cimitero di Partanna, paese che neanche oggi riesce a piangere. Don Calogero, parroco della Matrice, ricorda “le gravi crisi depressive” di una giovane ragazza […]. Funerali di donne in Sicilia, solo donne per salutare una di loro, per onorare la memoria di Rita Atria, morta di mafia a diciotto anni, morta per il suo coraggio in una terra dilaniata dalle faide e devastata dalla lupara. Cimitero quasi deserto a Partanna alle cinque di un caldissimo pomeriggio d’estate. […] Non c’è Giovanna Cannova, la madre che ha ripudiato Rita quando la figlia ha cominciato a svelare i segreti della “famiglia” ai carabinieri, la madre che non vuole rivedere nemmeno la figlia morta, suicida, sconvolta per l’uccisione di Paolo Borsellino. […] Sui muri di Partanna non c’è un solo manifesto alla memoria di Rita, non c’è lutto in paese, non c’è il silenzio. […] Don Calogero apre una busta e legge una lettera. È un messaggio firmato da “i cittadini magistrati di Marsala, di Sciacca e di Trapani”, i giudici che hanno convinto Rita a raccontare la sua terribile vita, a spiegare come era morto il padre Vito e chi aveva ammazzato il fratello Nicolò, i giudici che l’avevano ascoltata per mesi prima che la ragazza partisse per Roma, protetta dagli uomini dell’Alto commissariato antimafia. Lettera di dolore quella dei magistrati: “La tristissima morte di Rita ha riempito di sconforto l’animo di noi giudici già avviliti per l’irreparabile perdita di Paolo Borsellino… lo stretto legame non solo temporale fra i due eventi ha reso ancora più sconvolgente questo accadimento. Noi tuttavia confidiamo che l’esempio di Rita sia recepito da molte altre persone che ancora si trovano avvolte dal giogo del silenzio”. E infine: “Noi abbiamo voluto esserle vicini con queste parole poiché sappiamo quanta speranza avesse riposto nella giustizia”1Attilio Bolzoni, “Per Rita funerali d’odio e di silenzio”, La Repubblica, 01/08/1992.
Consolata Maesano