Il Maxi Processo di Palermo rimane un pilastro imprescindibile della storia italiana. Proviamo a capire perchè.
NUMERI E CIFRE
Il Maxi Processo è uno tra i processi più lunghi e complessi a livello internazionale: si svolge in primo grado a Palermo, dura quasi due anni (dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987). Gli imputati per svariati reati e quasi tutti appartenenti a Cosa Nostra, sono 475, di cui 207 detenuti: da qui la costruzione dell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo, costruita appositamente in meno di 9 mesi da 120 operai che lavorano 7 giorni su 7, per un costo complessivo di 36 miliardi di lire. Una struttura impotente, che permette di non dover spostare i detenuti ed è abbastanza grande per contenere gli imputati, gli oltre 200 difensori, le parti civili e altrettanti giornalisti. L’aula bunker viene presto ribattezzata come “l’astronave verde”: il sostantivo richiama una pagina nuova, dunque aliena rispetto alla tradizione giuridica in termini di contrasto alla mafia; il verde invece è il colore degli interni. La sentenza di primo grado si conclude con 19 ergastoli, 2.665 anni complessivi di reclusione, 11.542.000 di lire di multa e 114 assoluzioni.
IL POOL ANTIMAFIA
«Rocco Chinnici ci scelse uno per uno, noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costruito il cosiddetto Pool Antimafia. Ci prospettò lucidamente le difficoltà e i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, insistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti che allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla palude al nostro lavoro».
(Paolo Borsellino)
Un pool raccoglie un insieme di magistrati che lavora sulla medesima indagine, secondo un modus operandi sperimentato per la prima volta in Italia nei processi per terrorismo. Successivamente, l’idea di un pool antimafia per il Maxi Processo viene in mente al magistrato Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia prima dell’appuntamento giudiziario, il 29 luglio 1983, e sostituito dal collega Antonino Caponnetto). Egli ingloba nella squadra due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; senza dimenticare Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta. I risultati non si fanno attendere, con il rapporto dei 162, primo nucleo di maxiprocesso; la fondamentale collaborazione di Tommaso Buscetta (Falcone, nel 1984, volò in Brasile per interrogarlo in carcere: le sue confessioni hanno permesso di conoscere la struttura piramidale di Cosa Nostra) e di Salvatore Contorno; l’arresto dei cugini Nino e Ignazio Salvo e di Vito Ciancimino; la ricostruzione della struttura di comando della strategia sanguinosa di Cosa nostra; la gestione del pentitismo. Ma il team non dura a lungo, sotto gli attacchi duri ed infamanti che provengono da ogni dove: stampa, politica, mafia, magistratura stessa.
PRIMA DEL PROCESSO: PALERMO SI TINGE DI SANGUE
Palermo, negli anni ’80, è teatro della sanguinosa seconda guerra di mafia, che solo tra il 1980 e il 1983 conta oltre 600 morti. Politici, giudici, giornalisti e funzionari delle forze pubbliche: il vicequestore Boris Giuliano, il presidente della regione Sicilia Persanti Mattarella, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, Pio La Torre, segretario regionale Pci.
PRIMA DEL PROCESSO: L’ESTATE ALL’ASINARA. SICUREZZA, LAVORO….
A CARICO DELLO STATO? NON PROPRIO
Nell’estate del 1985, poiché si era sparsa la voce di un imminente attentato ai loro danni, Falcone e Borsellino con le rispettive famiglie vengono urgentemente trasferiti presso l’isola sarda dell’Asinara, dove lavorano all’istruttoria del Maxi Processo. Benché fosse tutto fuorché una vacanza lo Stato chiese loro le spese per il soggiorno forzato, come ricordò Borsellino: «Pagammo, noi e i familiari: diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti».
PRIMA DEL PROCESSO: IL BLITZ D SAN MICHELE. LODI A STELLE E STRISCE, INSULTI TRICOLORI
Avvertendo sempre più la necessità di verifiche e riscontri, i magistrati necessitano di passare all’azione e programmano un intervento della polizia per metà ottobre del 1984. Falcone teme uno scoop giornalistico, quindi il blitz viene anticipato alla notte di San Michele, tra il 28 e il 29 settembre di quell’anno. In poche ore, vengono consegnate oltre 366 ordinanze di custodia cautelare. Gli applausi arrivano solo dall’altra parte del mondo: l’America ci invidia Falcone sin dagli anni ’70, per i risultati dell’inchiesta Pizza Connection, con la quale era riuscito a smascherare un’immensa rete per il traffico di eroina manovrato da migranti siciliani che lavoravano in una catena di pizzerie americane. In Italia, invece, il blitz fa storcere il naso a politica, stampa e magistratura, che etichettano il lavoro del pool come “giustizia spettacolo”.
LA STAGIONE DEI VELENI E LA FINE DEL POOL
Il clima all’interno della magistratura non aiuta di certo il pool, che gradualmente viene smantellato. Nel 1988 Giovanni Falcone viene superato da Antonino Meli, che sostituisce Caponnetto come capo dell’ufficio istruzione del tribunale. Il Csm, durante la votazione, si spacca e prevale il criterio di anzianità, che va a vantaggio di Meli. Da qui, una lunga serie di polemiche, con Falcone e Borsellino che lanciano l’allarme sullo smantellamento del pool e sugli ostacoli posti alle inchieste antimafia. I risultati sono «istruttorie inceppate», «pool in fase di stallo», «infami calunnie di protagonismo» e «una campagna denigratoria di inaudita bassezza».
La stagione dei veleni non conosce pause: il 21 giugno del 1989 Falcone è bersaglio di un attentato, fortunatamente fallito: su degli scogli vicino alla sua villa dell’Addaura vengono ritrovati 58 candelotti di tritolo, che però non esplodono. In seguito al fallito attentato, si sparge la calunniosa voce secondo la quale sarebbe stato lo stesso Falcone ad intentare la strage mancata, per farsi pubblicità.
Un “corvo” invia diverse lettere anonime, alcune scritte su carta intestata della Criminalpol, a diverse cariche dello Stato: il contenuto accusa Falcone di aver pilotato il pentimento di Contorno, per consentirgli di tornare a Palermo ad assassinare i suoi nemici, i Corleonesi.
Persino lo scrittore Leonardo Sciascia, in un celebre articolo pubblicato sul Corriere Sera in pieno Maxi Processo (nel gennaio del 1987), si scaglierà sin dal titolo contro “I professionisti dell’antimafia” e contro Paolo Borsellino, appena nominato procuratore capo a Marsala. Sciascia non approva che a prevalere non sia stato il criterio dell’anzianità (che avrebbe avvantaggiato altri candidati, tra cui Alcamo), ma quello della maggiore esperienza nei processi di mafia: «I lettori prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Sciascia definisce inoltre il Coordinamento Antimafia «una frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere… un potere fondato sulla lotta alla mafia che non consente dubbio, dissenso, critica».

Secca la replica del Coordinamento Antimafia, che in un comunicato stampa risponde così: «Non ce ne voglia l’illuminato uomo di cultura Leonardo Sciascia se per questa volta, con tutta la nostra forza lo collochiamo ai margini della società civile… Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillità bucolica è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, così vivendo, si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco dei quaquaraquá».
IL PROCESSO D’APPELLO
La Corte ritiene che il principio di verticalità delle cosche su cui si era basata la sentenza in primo grado fosse in realtà molto meno rilevante. Conseguenzialmente le pene sono ridotte.
LA CASSAZIONE
Falcone tenta in tutti i modi di evitare che venga nominato presidente della sezione Corrado Carnevale, “il giudice ammazza-sentenze”, in grado di per banali vizi di forma oltre 500 sentenze. Falcone riesce a far adottare un sistema di rotazione: a turno, tutti i processi di mafia vanno attribuiti a tutti i presidenti di sezione.
Con l’ultimo grado del processo si ritorna a sostenere il punto di vista della Corte di primo grado: la sentenza punta tutto sul principio di verticalità delle cosche e riconferma tutte le condanne, rendendole definitive; inoltre annulla le assoluzioni.
ANCORA SANGUE
Per evitare che presiedesse l’appello del Maxi Processo, il 25 settembre 1988 Cosa Nostra uccide il magistrato Antonino Saetta.
Il magistrato che avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa in Cassazione, Antonino Scopelliti, viene ucciso a Villa San Giovanni il 9 agosto 1991. Integerrimo, aveva detto un secco “no” ai boss siciliani e alla loro offerta (5 miliardi delle vecchie lire), per raddrizzare la requisitoria contro di loro: parole (anzi, testimonianza) di un pentito. Così, alla mafia siciliana non resta che chiedere il favore ai “colleghi dirimpettai”: uccidetelo per noi, in cambio faremo finire la seconda guerra di ‘ndrangheta (per approfondire, clicca qui: http://www.levitediastrea.it/vittimedimafia/omicidio-giudice-scopelliti/).

di CONSOLATA MAESANO