Pippo Fava, prima di divenire una vittima di mafia, fu molte cose.
La sua barbara uccisione, 37 anni or sono, ha fatto tacere per sempre un cronista raro, “di razza”.
Pippo Fava era più che un direttore: fu innanzitutto un Maestro, con l’iniziale assolutamente maiuscola, per il giovane team di cronisti al suo seguito. E lo è ancora anche per le generazioni successive, che continuano a formarsi attraverso i suoi scritti e il suo esempio.
Pippo Fava fu un giornalista siciliano che non perse mai la rotta, anzi: seguì deciso e costante l’ago della bussola della sua integrità. Sempre a testa alta e con la schiena dritta, nonostante la nebbia della solitudine; il deserto di contributi e pubblicità; la fitta coltre di indifferenza generale; le spalle voltate da tutti.
In primis dalle istituzioni, che non si presentarono ai suoi funerali (o meglio, qualcuno si disturbò soltanto per negare l’esistenza della mafia).
Senza dimenticare tanti altri colleghi di testate concorrenti che, zitti e buoni, si voltavano senza troppi sforzi di coscienza dall’altra parte, in direzione opposta rispetto a quella contro cui Fava puntava imperterrito i riflettori.
Pippo Fava, il giornalismo senza fondi e senza padrone
Passando per gli editori, che prima gli promisero massima libertà di stampa ma poi – dopo denunce e inchieste dal valore inestimabile sui legami catanesi tra mafia, politica e imprenditoria – gli diedero il ben servito. Accadde al Giornale del Sud, di cui Fava era direttore, finché non pubblicò l’editoriale che, come uno scrigno, raccoglie la sua inestimabile eredità:
«Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento».
Pippo Fava non si perse d’animo e, tra mille difficoltà, fondò un altro giornale (più precisamente un mensile, I Siciliani). Senza fondi, ma senza padroni: le denunce sulle nuove colonne ebbero presto risonanza nazionale, le copie facevano abitualmente sold out anche nelle grandi città, lontane migliaia di chilometri.
La figlia di Pippo Fava, Elena, ricorda con precisione e con affetto quell’avventura paterna:
Un disadorno e freddo scantinato in un paese alle falde dell’Etna. Un grande open space rettangolare. In fondo le rotative (due, vecchie e piane acquistate in Svizzera dalla cooperativa Radar, con un finanziamento regionale), nella zona centrale, a metà dello spazio, il vasto tavolo della grafica per l’impaginazione del menabò.
Due o tre computer che stampavano direttamente il supporto per la fotocomposizione. Dall’altro lato e lungo le pareti, i tavoli dei cronisti e quello del direttore. La redazione de I siciliani era così, si lavorava tutti insieme. Ho un vivo ricordo della prima riunione.
Tutti seduti in circolo, mio padre con l’immancabile sigaretta tra le dita, gli occhi brillanti, il sorriso un po’ sornione, che illustra il programma operativo del giornale nei minimi particolari, assegnando ad ognuno un compito. Non c’erano molti fondi, ma tante idee.
Mio padre aveva organizzato in breve tempo la redazione, formando i giovani cronisti. Lo ricordo entusiasta del suo progetto e, altrettanto entusiasti, ricordo i suoi ragazzi, che pendono direttamente dalle labbra, della mente e, soprattutto, dal cuore del direttore.
La realtà della direzione è questa; un direttore ultracinquantenne, dotato di grande esperienza giornalistica, di passione civile e di grinta, e un gruppo di giovani spavaldi e appassionati come Fava1Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia, a cura di Claudio Camarca, AA VV, Castelvecchi Editore, 2013 .
L’avventura, per Fava, purtroppo non è destinata a durare molto. La sera del 5 gennaio 1984 cinque proiettili lo colpirono in testa, a bordo della sua auto.
I Siciliani, orfani di Fava, proseguirono a schiena dritta, tra il dolore e la rabbia:
«Mica possiamo tirarsi indietro con la scusa che è morto uno di noi – recitava l’editoriale successivo all’omicidio – Se qualcuno vuole darci una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore?»2Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia, a cura di Claudio Camarca, AA VV, Castelvecchi Editore, 2013 .
La direzione passò al figlio di Pippo, Claudio Fava, coadiuvato dal vicedirettore Riccardo Orioles.
di Consolata Maesano