di CONSOLATA MAESANO –
Oggi sarebbe stato il compleanno di Antonino Scopelliti: il giudice starebbe soffiando su 86 candeline, che bel traguardo! Avrebbe ripensato alla sua carriera: Dio solo sa quanti altri traguardi l’avrebbero costellata.
Se non fosse stato ucciso, il 9 agosto del 1991, avrebbe rappresentato la pubblica accusa in Cassazione per il maxi processo a Cosa Nostra, già alla per la fine di quell’anno. Si era offerto lui stesso: era «portato per vocazione ad occuparsi di questioni molto serie e complesse», parole dell’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Aloi. Era anche integerrimo, aveva detto un secco “no” ai boss siciliani e alla loro offerta (5 miliardi delle vecchie lire), per raddrizzare la requisitoria contro di loro: parole (anzi, testimonianza) di un pentito. Così, alla mafia siciliana non resta che chiedere il favore ai “colleghi dirimpettai”: uccidetelo per noi, in cambio faremo finire la seconda guerra di ‘ndrangheta.
Presto e fatto: Scopelliti, senza scorta e abbastanza routinario, sta tornando in auto dal mare. È diretto presso la casa dei suoi genitori, a Campo Calabro (Reggio Calabria). Morirà pochi chilometri prima, a Piale di Villa San Giovanni. All’altezza di una curva, due killer a bordo di una moto sparano contro la sua Bmw con fucili calibro 12. Due spari raggiungono Scopelliti alla testa e la sua auto, oramai priva di controllo, precipita in un terrapieno sottostante. Sembra un incidente, ma le malelingue sentenziano subito: “sarà stata una questione di femmine”.
Se non fosse assassinato, starebbe ripensando alle sue origini, a quel piccolo paese che sorge sulle colline e che gode di una vista privilegiata sullo Stretto di Messina. “Ninuzzo”, lo chiamano i suoi concittadini: li ha dovuti abbandonare presto, vive a Roma da anni, ma le radici sono ancora salde: «mio figlio era una persona amabilissima e ben voluta da tutto il paese- dichiara il padre alla magistratura, pochi giorni dopo l’agguato al figlio – Quando arrivava a Campo Calabro venivano a trovarlo tutti e lui si faceva in quattro per le loro esigenze. E tutti uscivano sorridenti dall’incontro con lui».
Se non fosse ucciso, ci sarebbero stati anni e anni di incontri, di saluti, di risate, di estati. Invece resta un solo appuntamento: i funerali di Stato (presenziati dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga e da parecchie altre autorità). La chiesa di Santa Maria Maddalena è gremita. I campesi hanno voluto portare “a spalla” il feretro di Nino. Qualcuno di loro se la prende con gli agenti: «Andatevene, non abbiamo bisogno di voi! Lo guardiamo noi il nostro Nino. Prima lo lasciano ammazzare e poi mettono 50 uomini a guardarlo».
Se fosse rimasto in vita, Nino Scopelliti avrebbe continuato a rappresentare un’eccellenza in diritto, in parallelo avrebbe scritto altre pagine della storia giudiziaria del nostro paese. Ha la toga addosso già a 24 anni, inizia presto a occuparsi dei più importanti processi della storia italiana – dal primo processo Moro all’assassinio dei giudici Vittorio Accorsio e Mario Amato; dall’omicidio del giudice Chinnici alla strage di Piazza Fontana; dalla strage del rapido 904 all’uccisione del capitano Basile. Si era già imposto tra i massimi esperti di diritto, costantemente in prima linea per garantire «privilegi particolari e maggiore protezione» a tutti i pentiti di mafia, perché «quando accettano di collaborare con la giustizia accettano di rischiare la propria vita».
Ma del senno del poi, si sa, ne son piene le fosse. Dalla sua morte sono passati trenta estati, senza che ancora ci sia giustizia, un colpevole che stia pagando.
Negli anni ‘90 sono stati istituiti due processi: uno contro Riina e boss siciliani, l’altro contro Provenzano ed altri boss, tutti condannati in primo grado e poi assolti in Corte d’Appello.
A marzo del 2019 la soluzione del cold case sembrava vicina:
«Il pentito catanese Maurizio Avola – è lui ad aver fatto riaprire il caso- ha parlato dei rapporti tra Messina Denaro ed esponenti della ‘ndrangheta, rapporti che sarebbero ancora attuali. Le nuove rivelazioni ruotano attorno a un summit che si sarebbe tenuto a Trapani nella primavera del 1991: Messina Denaro sarebbe stato tra i protagonisti di un patto firmato coi calabresi per eliminare il sostituto procuratore generale che doveva rappresentare l’accusa nel primo maxi processo alla mafia siciliana. E la sera del 9 agosto del 1991 avrebbe operato un commando misto. Avola ha fatto ritrovare il fucile dei killer, nascosto nelle campagne del catanese. Ad annunciarlo era stato il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, lo scorso agosto, a margine dell’ultima commemorazione per Scopelliti. Ma la notizia della nuova indagine era rimasta top secret. Ora è possibile raccontare che sono 17 gli indagati nel fascicolo dell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Tutti nomi di primo piano dei clan1Salvo Palazzolo, Delitto Scopelliti un pentito rivela: “Messina Denaro lo voleva morto”, La Repubblica, 17/03/2019»
Ma purtroppo l’entusiasmo ha dovuto subire una brusca frenata:
«Il fucile che il pentito Maurizio Avola ha fatto ritrovare un anno fa nella campagna catanese non sarebbe quello utilizzato dai killer per uccidere, 27 anni fa, il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti. O meglio: la perizia che i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria hanno affidato alla polizia scientifica, parla di un’arma «troppo vecchia, ossidata e incrostata per poter eseguire qualsiasi tipo di esame scientifico» scrivono i tecnici della polizia2Carlo Macrì, “Omicidio Scopelliti, quei dubbi sul fucile”, Corriere della Sera, 26/07/19».
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