I moti di Reggio Calabria. Ancora tante domande
Cosa sono stati davvero i moti di Reggio Calabria, esplosi più di 50 anni fa? Chi ha veramente mosso le fila della rivolta? Come può l’istituzione della Regione Calabria del 1970 aver causato, in pochissimo tempo, la prima ribellione di massa dell’Europa occidentale, la prima della storia della Repubblica a venir fronteggiata con l’esercito? Solo “un pretestuoso pennacchio”, un capriccio campanilistico per il riconoscimento di Catanzaro come capoluogo regionale?
Perché tutti hanno fatto finta di non capire che, nel deserto industriale reggino, l’impiego pubblico avrebbe rappresentato l’ultimo miraggio occupazionale? Come mai la mancata assegnazione del capoluogo ha trasformato la città dei Bronzi in un inferno in terra per due anni?
Quali motivi hanno portato una decina di morti, centinaia di feriti, una quarantina di attentati dinamitardi? E ancora: le barricate, agli scontri con le forze dell’ordine, gli scioperi generali, l’occupazione dei binari ferroviari, la Repubblica reggina di Sbarre? Perché l’eco delle proteste non ha rimbombato attraverso l’etere, tramite il tubo catodico? Perché non si è udito neppure un fiato in merito nei salotti Rai, mentre Reggio veniva invasa da una vasta schiera di giornalisti nazionali ed internazionali? Come mai il silenzio in tv mentre la stampa mondiale versava fiumi d’inchiostro su Reggio e da Reggio?
Tanti punti interrogativi che il tempo non ossida, semmai rende sempre più uncinati.
I moti di Reggio Calabria. Protagonisti principali e dietro le quinte
Quel che è certo è che la rivolta assume presto una prospettiva anti-sistema e neofascista («per la gioventù di destra e di estrema destra Reggio fu un’ubriacatura. Ci sembrava un bel sogno. Ci fu la tentazione e l’ipotesi di una rivolta a livello nazionale. Si pensò di esportare Reggio»1Gianfrancesco Turano, «Salutiamo, amico», Giunti Editore, 2020, p. 437, dichiarerà il segretario nazionale Msi a “La storia siamo noi”).
Il tempo, intanto, continua a sfumare i contorni dei vari registi della rabbia reggina: la ‘ndrangheta, che ai tempi neppure si chiamava così e che era ancora offlimits dalla città; la massoneria; la destra eversiva; i servizi segreti.
Eppure Reggio, nel 1970, non è assolutamente una città di destra. I numeri non mentono, soprattutto alle urne: alle prime elezioni del consiglio regionale in provincia di Reggio, a un mese dallo scoppio dei moti, il movimento sociale raccoglie appena il 6,5% di preferenze. Due candidati reggini, destinati a diventare protagonisti dei moti, non vengono neppure eletti: si tratta di Ciccio Franco, sindacalista e missino nonché promotore dell’adozione del motto “boia chi bolla!” e l’armatore Amedeo Matacena, in corsa coi repubblicani.
Sin dall’anno prima, in coincidenza con le prime voci sull’attribuzione del capoluogo a Catanzaro, nascono diversi comitati, tra cui il Comitato d’agitazione, guidato dall’avvocato Francesco Gangemi; il Comitato unitario per Reggio capoluogo al cui vertice c’è il primo cittadino democristiano Pietro Battaglia e altri esponenti, sia democristiani sia missini; un ulteriore comitato aveva come riferimento il già citato Matacena e l’industriale del caffè Demetrio Mauro.
I moti partono ufficialmente il 14 luglio, data per eccellenza di rivoluzione: iniziano quel giorno i disordini, gli scontri tra i dimostranti e le forze dell’ordine, i disordini e le barricate, destinati a durare ben due anni.
I moti di Reggio Calabria e la conta dei morti
La prima vittima arriva già il giorno dopo: a soli 46 anni, durante i tafferugli, perde la vita il ferroviere Bruno Labate. Il 17 settembre sul ponte Calopinace viene ucciso Angelo Campanella, autista di 45 anni; lo stesso giorno muore anche il brigadiere Bruno Curigliano, di 47 anni, stroncato da un infarto durante l’assedio della Questura a seguito del primo omicidio. Il 16 gennaio 1971 muore l’agente di Pubblica Sicurezza Antonio Bellotti, 19 anni, colpito da una sassata due giorni prima mentre sta lasciando Reggio in treno.
Il 21 luglio, in Aspromonte, l’occupazione del trasmettitore Rai interrompe le trasmissioni per ore. Il giorno dopo presso la stazione di Gioia Tauro il deragliamento di un treno (l’espresso Palermo-Torino) costa la vita a sei persone. I binari sono deformati dall’esplosivo, come segnala prontamente Mario Righetti sulle colonne del Corriere della Sera, subito smentito. Un’inchiesta, decenni dopo, farà luce sulla responsabilità della ‘ndrangheta in merito all’attentato, ai tempi frettolosamente etichettato come incidente. Solo nella notte tra 6 e il 7 settembre si verificano ben quattro attentati dinamitardi, circa un mese dopo se ne verificherà un altro a un traliccio sul monte Sant’Elia, tra Palmi e Bagnara Calabra.
I moti di Reggio Calabria e i contentini ai suoi abitanti
Il governo, che per la prima volta nella storia della giovanissima Repubblica ha schierato l’esercito per fronteggiare una situazione così critica, propone ciò che a distanza di anni appare chiaramente un’illusione di sviluppo economico.
Il presidente del Consiglio Emilio Colombo, in Parlamento, l’11 febbraio del 1971, presenta il “pacchetto” che prende il suo cognome e che prevede una serie di stanziamenti economico per lo sviluppo industriale. Il premier si rivolge direttamente alla città in riva allo Stretto di Messina: si faccia bastare il consiglio regionale, ringrazi pure per il V° centro nazionale siderurgico (mai realizzato) a Gioia Tauro e la liquilchimica Biosintesi di Saline Joniche (che in pratica non entrerà mai in funzione) e la smetta subito con la rivolta:
«Crediamo di aver offerto alla popolazione di Reggio tutti gli elementi per decidere: essa può imboccare la via della pacificazione con una costruttiva azione a vantaggio di tutti, ma essa potrebbe malauguratamente decidere- assumendosene tutte le responsabilità – di perseverare in questo atteggiamento di rivolta. Ho detto che non siamo per soluzioni di forza, ma è chiaro che in questo secondo caso la forza sarebbe un dovere, sarebbe una decisione dolorosa ed amara che tuttavia la popolazione di Reggio- e questo è certo l’auspicio del paese- ha in sé la forza e la capacità di evitare».
Le conseguenze a tutt’oggi
L’eco delle promesse infrante, l’illusione del riscatto, il fantasma dell’impiego, il contentino del Governo, la sopraffazione criminale sono ancora ben visibili in Calabria:
«L’ecomostro della Liquichimica di Saline Joniche è una cattedrale nel deserto, realizzata negli anni ’70 con i fondi stanziati dal Ministero guidato dal democristiano Emilio Colombo. Era il “pacchetto Colombo”, 1300 miliardi delle vecchie lire inondarono Reggio e provincia e stimolando l’appetito delle ‘ndrine. Ufficialmente sarebbero serviti allo sviluppo industriale di una delle province più depresse d’Italia. In realtà il Governo centrale non sapeva come placare i moti di Reggio. [..] A guadagnarci dal mostro Liquichimica furono soltanto le ruspe dei boss. Lo stabilimento che doveva produrre bioproteine per mangimi animali venne chiuso dopo appena due giorni di attività. Solo dopo avere speso quel fiume di denaro le Istituzioni conclusero che la produzione era “altamente inquinante”. E l’impianto venne bloccato. […] Mentre il disastro ambientale è ancora visibile»2Giovanni Tizian, «L’ex Liquichimica arricchì solo i boss, durò due giorni e poi chiuse i cancelli», La Repubblica, 27/03/2012
Imprescindibili, per la conoscenza dei fatti e per la stesura dell’articolo, la post-fazione e la cronologia in conclusione di “Salutiamo, amico. Il romanzo sull’estate dei boiachimolla”, l’avvincente romanzo del giornalista reggino Gianfrancesco Turano (2020, Giunti Editore).
Consolata Maesano