Rocco Chinnici è l’ideatore del pool antimafia. Durante la sua carriera indaga sulla strage di viale Lazio, sui fondi erogati dalla regione, riapre il caso Peppino Impastato. Due settimane prima di morire, assieme a Falcone, avalla 14 mandati di cattura per l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Non aveva mai fatto mistero di voler unificare diverse inchieste, fermamente convinto dell’unica regia strategico mafiosa per i diversi omicidi di quegli anni: «Una mia eventuale condanna a morte scaturirà dallo stesso “cervello” criminale che ha già deciso gli omicidi di Terranova, Mattarella, Costa, La Torre».
La mattina del 29 luglio del 1983 “Palermo come Beirut”, titolano i giornali: una Fiat 126 con a bordo una cinquantina di chili di tritolo viene attivata proprio di fronte casa del giudice Rocco Chinnici, al civico numero 63 di via Pipitone Federico a Palermo. Assieme al magistrato muoiono 2 carabinieri e il portinaio del palazzo, mentre una ventina di persona resta ferita. Alcune auto, con la deflagrazione, volano sino al terzo piano.
Nel 2003 la Cassazione conferma 11 ergastoli per la strage del giudice Chinnici.
Antonino Saetta
Sarà Antonino Saetta, come presidente della corte d’appello di Caltanissetta, a occuparsi del processo per la strage del giudice Chinnici. Segue il trasferimento a Palermo e diversi processi di mafia. È facile capire perché risulti tra le toghe papabili per l’appello del maxiprocesso: condivide fermamente l’impostazione del Pool Antimafia sul carattere verticistico e unitario di Cosa Nostra, inoltre respinge con fermezza gli approcci di Cosa Nostra. Ciononostante, Saetta non dispone di una scorta.
La notte del 25 settembre 1988 un commando scarica circa 47 colpi di proiettile contro l’auto su cui viaggia il giudice Antonino Saetta e suo figlio Stefano, uccidendo entrambi. I due sono di ritorno a Palermo dopo un weekend a Canicattì, luogo natale del magistrato, dove aveva partecipato al battesimo di un nipote. L’altro figlio del giudice, Roberto Saetta, rilasciò una testimonianza scioccante, destinata tuttavia a rimanere inascoltata:
«Mio padre mi aveva chiamato domenica sera verso le nove. Mi aveva detto di essere indeciso: forse voleva resta a Canicattì, per quella notte. Mi richiamò un’ora dopo per annunciarmi il cambiamento di programma. Solo chi ascoltò quella chiamata era in condizione di mettere a segno un piano criminale tanto perfetto Oramai sono quasi sicuro: avevamo il telefono sotto controllo»
Nel 1996 sono stati condannati all’ergastolo dalla Corte di Assise di Caltanissetta gli assassini del giudice Saetta.
Antonino Scopelliti
Antonino Scopelliti (per approfondire, clicca qui: http://www.levitediastrea.it/vittimedimafia/omicidio-giudice-scopelliti/), invece, avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa in Cassazione per il maxiprocesso, ma il 9 agosto del 1991 subisce un agguato fatale nella provincia reggina. Il giudice, senza scorta e abbastanza routinario, sta tornando in auto dal mare. È diretto presso la casa dei suoi genitori, a Campo Calabro. Morirà pochi chilometri prima, a Piale di Villa San Giovanni. All’altezza di una curva, due killer a bordo di una moto sparano contro la sua Bmw con fucili calibro 12. Due spari raggiungono Scopelliti alla testa e la sua auto, oramai priva di controllo, precipita in un terrapieno sottostante.
Integerrimo, Antonino Scopelliti aveva detto un secco “no” ai boss siciliani e alla loro offerta (5 miliardi delle vecchie lire), per raddrizzare la requisitoria contro di loro: parole (anzi, testimonianza) di un pentito. Così, alla mafia siciliana non resta che chiedere il favore ai “colleghi dirimpettai”: uccidetelo per noi, in cambio faremo finire la seconda guerra di ‘ndrangheta.
L’iter giudiziario, per l’omicidio Scopelliti, è fermo agli anni ’90.
Il Maxi Processo di Palermo rimane un pilastro imprescindibile della storia italiana. Proviamo a capire perchè.
NUMERI E CIFRE
Il Maxi Processo è uno tra i processi più lunghi e complessi a livello internazionale: si svolge in primo grado a Palermo, dura quasi due anni (dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987). Gli imputati per svariati reati e quasi tutti appartenenti a Cosa Nostra, sono 475, di cui 207 detenuti: da qui la costruzione dell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo, costruita appositamente in meno di 9 mesi da 120 operai che lavorano 7 giorni su 7, per un costo complessivo di 36 miliardi di lire. Una struttura impotente, che permette di non dover spostare i detenuti ed è abbastanza grande per contenere gli imputati, gli oltre 200 difensori, le parti civili e altrettanti giornalisti. L’aula bunker viene presto ribattezzata come “l’astronave verde”: il sostantivo richiama una pagina nuova, dunque aliena rispetto alla tradizione giuridica in termini di contrasto alla mafia; il verde invece è il colore degli interni. La sentenza di primo grado si conclude con 19 ergastoli, 2.665 anni complessivi di reclusione, 11.542.000 di lire di multa e 114 assoluzioni.
IL POOL ANTIMAFIA
«Rocco Chinnici ci scelse uno per uno, noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costruito il cosiddetto Pool Antimafia. Ci prospettò lucidamente le difficoltà e i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, insistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti che allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla palude al nostro lavoro».
(Paolo Borsellino)
Un pool raccoglie un insieme di magistrati che lavora sulla medesima indagine, secondo un modus operandi sperimentato per la prima volta in Italia nei processi per terrorismo. Successivamente, l’idea di un pool antimafia per il Maxi Processo viene in mente al magistrato Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia prima dell’appuntamento giudiziario, il 29 luglio 1983, e sostituito dal collega Antonino Caponnetto). Egli ingloba nella squadra due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; senza dimenticare Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta. I risultati non si fanno attendere, con il rapporto dei 162, primo nucleo di maxiprocesso; la fondamentale collaborazione di Tommaso Buscetta (Falcone, nel 1984, volò in Brasile per interrogarlo in carcere: le sue confessioni hanno permesso di conoscere la struttura piramidale di Cosa Nostra) e di Salvatore Contorno; l’arresto dei cugini Nino e Ignazio Salvo e di Vito Ciancimino; la ricostruzione della struttura di comando della strategia sanguinosa di Cosa nostra; la gestione del pentitismo. Ma il team non dura a lungo, sotto gli attacchi duri ed infamanti che provengono da ogni dove: stampa, politica, mafia, magistratura stessa.
PRIMA DEL PROCESSO: PALERMO SI TINGE DI SANGUE
Palermo, negli anni ’80, è teatro della sanguinosa seconda guerra di mafia, che solo tra il 1980 e il 1983 conta oltre 600 morti. Politici, giudici, giornalisti e funzionari delle forze pubbliche: il vicequestore Boris Giuliano, il presidente della regione Sicilia Persanti Mattarella, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, Pio La Torre, segretario regionale Pci.
PRIMA DEL PROCESSO: L’ESTATE ALL’ASINARA. SICUREZZA, LAVORO….
A CARICO DELLO STATO? NON PROPRIO
Nell’estate del 1985, poiché si era sparsa la voce di un imminente attentato ai loro danni, Falcone e Borsellino con le rispettive famiglie vengono urgentemente trasferiti presso l’isola sarda dell’Asinara, dove lavorano all’istruttoria del Maxi Processo. Benché fosse tutto fuorché una vacanza lo Stato chiese loro le spese per il soggiorno forzato, come ricordò Borsellino: «Pagammo, noi e i familiari: diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti».
PRIMA DEL PROCESSO: IL BLITZ D SAN MICHELE. LODI A STELLE E STRISCE, INSULTI TRICOLORI
Avvertendo sempre più la necessità di verifiche e riscontri, i magistrati necessitano di passare all’azione e programmano un intervento della polizia per metà ottobre del 1984. Falcone teme uno scoop giornalistico, quindi il blitz viene anticipato alla notte di San Michele, tra il 28 e il 29 settembre di quell’anno. In poche ore, vengono consegnate oltre 366 ordinanze di custodia cautelare. Gli applausi arrivano solo dall’altra parte del mondo: l’America ci invidia Falcone sin dagli anni ’70, per i risultati dell’inchiesta Pizza Connection, con la quale era riuscito a smascherare un’immensa rete per il traffico di eroina manovrato da migranti siciliani che lavoravano in una catena di pizzerie americane. In Italia, invece, il blitz fa storcere il naso a politica, stampa e magistratura, che etichettano il lavoro del pool come “giustizia spettacolo”.
LA STAGIONE DEI VELENI E LA FINE DEL POOL
Il clima all’interno della magistratura non aiuta di certo il pool, che gradualmente viene smantellato. Nel 1988 Giovanni Falcone viene superato da Antonino Meli, che sostituisce Caponnetto come capo dell’ufficio istruzione del tribunale. Il Csm, durante la votazione, si spacca e prevale il criterio di anzianità, che va a vantaggio di Meli. Da qui, una lunga serie di polemiche, con Falcone e Borsellino che lanciano l’allarme sullo smantellamento del pool e sugli ostacoli posti alle inchieste antimafia. I risultati sono «istruttorie inceppate», «pool in fase di stallo», «infami calunnie di protagonismo» e «una campagna denigratoria di inaudita bassezza».
La stagione dei veleni non conosce pause: il 21 giugno del 1989 Falcone è bersaglio di un attentato, fortunatamente fallito: su degli scogli vicino alla sua villa dell’Addaura vengono ritrovati 58 candelotti di tritolo, che però non esplodono. In seguito al fallito attentato, si sparge la calunniosa voce secondo la quale sarebbe stato lo stesso Falcone ad intentare la strage mancata, per farsi pubblicità.
Un “corvo” invia diverse lettere anonime, alcune scritte su carta intestata della Criminalpol, a diverse cariche dello Stato: il contenuto accusa Falcone di aver pilotato il pentimento di Contorno, per consentirgli di tornare a Palermo ad assassinare i suoi nemici, i Corleonesi.
Persino lo scrittore Leonardo Sciascia, in un celebre articolo pubblicato sul Corriere Sera in pieno Maxi Processo (nel gennaio del 1987), si scaglierà sin dal titolo contro “I professionisti dell’antimafia” e contro Paolo Borsellino, appena nominato procuratore capo a Marsala. Sciascia non approva che a prevalere non sia stato il criterio dell’anzianità (che avrebbe avvantaggiato altri candidati, tra cui Alcamo), ma quello della maggiore esperienza nei processi di mafia: «I lettori prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Sciascia definisce inoltre il Coordinamento Antimafia «una frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere… un potere fondato sulla lotta alla mafia che non consente dubbio, dissenso, critica».
Leonardo Sciascia
Secca la replica del Coordinamento Antimafia, che in un comunicato stampa risponde così: «Non ce ne voglia l’illuminato uomo di cultura Leonardo Sciascia se per questa volta, con tutta la nostra forza lo collochiamo ai margini della società civile… Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillità bucolica è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, così vivendo, si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco dei quaquaraquá».
IL PROCESSO D’APPELLO
La Corte ritiene che il principio di verticalità delle cosche su cui si era basata la sentenza in primo grado fosse in realtà molto meno rilevante. Conseguenzialmente le pene sono ridotte.
LA CASSAZIONE
Falcone tenta in tutti i modi di evitare che venga nominato presidente della sezione Corrado Carnevale, “il giudice ammazza-sentenze”, in grado di per banali vizi di forma oltre 500 sentenze. Falcone riesce a far adottare un sistema di rotazione: a turno, tutti i processi di mafia vanno attribuiti a tutti i presidenti di sezione.
Con l’ultimo grado del processo si ritorna a sostenere il punto di vista della Corte di primo grado: la sentenza punta tutto sul principio di verticalità delle cosche e riconferma tutte le condanne, rendendole definitive; inoltre annulla le assoluzioni.
ANCORA SANGUE
Per evitare che presiedesse l’appello del Maxi Processo, il 25 settembre 1988 Cosa Nostra uccide il magistrato Antonino Saetta.
Il magistrato che avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa in Cassazione, Antonino Scopelliti, viene ucciso a Villa San Giovanni il 9 agosto 1991. Integerrimo, aveva detto un secco “no” ai boss siciliani e alla loro offerta (5 miliardi delle vecchie lire), per raddrizzare la requisitoria contro di loro: parole (anzi, testimonianza) di un pentito. Così, alla mafia siciliana non resta che chiedere il favore ai “colleghi dirimpettai”: uccidetelo per noi, in cambio faremo finire la seconda guerra di ‘ndrangheta (per approfondire, clicca qui: http://www.levitediastrea.it/vittimedimafia/omicidio-giudice-scopelliti/).
Oggi sarebbe stato il compleanno di Antonino Scopelliti: il giudice starebbe soffiando su 86 candeline, che bel traguardo! Avrebbe ripensato alla sua carriera: Dio solo sa quanti altri traguardi l’avrebbero costellata.
Se non fosse stato ucciso, il 9 agosto del 1991, avrebbe rappresentato la pubblica accusa in Cassazione per il maxi processo a Cosa Nostra, già alla per la fine di quell’anno. Si era offerto lui stesso: era «portato per vocazione ad occuparsi di questioni molto serie e complesse», parole dell’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Aloi. Era anche integerrimo, aveva detto un secco “no” ai boss siciliani e alla loro offerta (5 miliardi delle vecchie lire), per raddrizzare la requisitoria contro di loro: parole (anzi, testimonianza) di un pentito. Così, alla mafia siciliana non resta che chiedere il favore ai “colleghi dirimpettai”: uccidetelo per noi, in cambio faremo finire la seconda guerra di ‘ndrangheta.
Presto e fatto: Scopelliti, senza scorta e abbastanza routinario, sta tornando in auto dal mare. È diretto presso la casa dei suoi genitori, a Campo Calabro (Reggio Calabria). Morirà pochi chilometri prima, a Piale di Villa San Giovanni. All’altezza di una curva, due killer a bordo di una moto sparano contro la sua Bmw con fucili calibro 12. Due spari raggiungono Scopelliti alla testa e la sua auto, oramai priva di controllo, precipita in un terrapieno sottostante. Sembra un incidente, ma le malelingue sentenziano subito: “sarà stata una questione di femmine”.
Se non fosse assassinato, starebbe ripensando alle sue origini, a quel piccolo paese che sorge sulle colline e che gode di una vista privilegiata sullo Stretto di Messina. “Ninuzzo”, lo chiamano i suoi concittadini: li ha dovuti abbandonare presto, vive a Roma da anni, ma le radici sono ancora salde: «mio figlio era una persona amabilissima e ben voluta da tutto il paese- dichiara il padre alla magistratura, pochi giorni dopo l’agguato al figlio – Quando arrivava a Campo Calabro venivano a trovarlo tutti e lui si faceva in quattro per le loro esigenze. E tutti uscivano sorridenti dall’incontro con lui».
Se non fosse ucciso, ci sarebbero stati anni e anni di incontri, di saluti, di risate, di estati. Invece resta un solo appuntamento: i funerali di Stato (presenziati dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga e da parecchie altre autorità). La chiesa di Santa Maria Maddalena è gremita. I campesi hanno voluto portare “a spalla” il feretro di Nino. Qualcuno di loro se la prende con gli agenti: «Andatevene, non abbiamo bisogno di voi! Lo guardiamo noi il nostro Nino. Prima lo lasciano ammazzare e poi mettono 50 uomini a guardarlo».
Se fosse rimasto in vita, Nino Scopelliti avrebbe continuato a rappresentare un’eccellenza in diritto, in parallelo avrebbe scritto altre pagine della storia giudiziaria del nostro paese. Ha la toga addosso già a 24 anni, inizia presto a occuparsi dei più importanti processi della storia italiana – dal primo processo Moro all’assassinio dei giudici Vittorio Accorsio e Mario Amato; dall’omicidio del giudice Chinnici alla strage di Piazza Fontana; dalla strage del rapido 904 all’uccisione del capitano Basile. Si era già imposto tra i massimi esperti di diritto, costantemente in prima linea per garantire «privilegi particolari e maggiore protezione» a tutti i pentiti di mafia, perché «quando accettano di collaborare con la giustizia accettano di rischiare la propria vita».
Ma del senno del poi, si sa, ne son piene le fosse. Dalla sua morte sono passati trenta estati, senza che ancora ci sia giustizia, un colpevole che stia pagando.
Negli anni ‘90 sono stati istituiti due processi: uno contro Riina e boss siciliani, l’altro contro Provenzano ed altri boss, tutti condannati in primo grado e poi assolti in Corte d’Appello.
A marzo del 2019 la soluzione del cold case sembrava vicina:
«Il pentito catanese Maurizio Avola – è lui ad aver fatto riaprire il caso- ha parlato dei rapporti tra Messina Denaro ed esponenti della ‘ndrangheta, rapporti che sarebbero ancora attuali. Le nuove rivelazioni ruotano attorno a un summit che si sarebbe tenuto a Trapani nella primavera del 1991: Messina Denaro sarebbe stato tra i protagonisti di un patto firmato coi calabresi per eliminare il sostituto procuratore generale che doveva rappresentare l’accusa nel primo maxi processo alla mafia siciliana. E la sera del 9 agosto del 1991 avrebbe operato un commando misto. Avola ha fatto ritrovare il fucile dei killer, nascosto nelle campagne del catanese. Ad annunciarlo era stato il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, lo scorso agosto, a margine dell’ultima commemorazione per Scopelliti. Ma la notizia della nuova indagine era rimasta top secret. Ora è possibile raccontare che sono 17 gli indagati nel fascicolo dell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Tutti nomi di primo piano dei clan1Salvo Palazzolo, Delitto Scopelliti un pentito rivela: “Messina Denaro lo voleva morto”, La Repubblica, 17/03/2019»
Ma purtroppo l’entusiasmo ha dovuto subire una brusca frenata:
«Il fucile che il pentito Maurizio Avola ha fatto ritrovare un anno fa nella campagna catanese non sarebbe quello utilizzato dai killer per uccidere, 27 anni fa, il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti. O meglio: la perizia che i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria hanno affidato alla polizia scientifica, parla di un’arma «troppo vecchia, ossidata e incrostata per poter eseguire qualsiasi tipo di esame scientifico» scrivono i tecnici della polizia2Carlo Macrì, “Omicidio Scopelliti, quei dubbi sul fucile”, Corriere della Sera, 26/07/19».
Astrea, nell’antichità greca, era una vergine stellare, che visse più vite: quella della speranza, tra gli uomini; quella della delusione, col ritiro nella natura per fuggire al degrado morale e quella del ritorno tra gli astri. Astrea si può considerare la progenitrice morale del Meridione d’Italia: i suoi discendenti, come lei, hanno tante storie, che questo spazio si propone di raccontare. Storie di riscatto, di speranza, di ingiustizia, di resa, di dignità del popolo meridionale, amplificate dal cinema, dalla letteratura, dall’attualità, dalla storia e dalla cronaca.
L’autrice
Consolata Maesano, nata e residente in un piccolo paesino del profondo Sud Italia, pressapoco in riva allo Stretto di Messina. Una laurea magistrale in informazione e sistemi editoriali, una passione sconfinata per il giornalismo, un amore datato per la lettura e la scrittura, un talento raro per il binge watching delle serie tv, un legame forte con la sua terra. Le sue giornate oscillano tra un “non ho sogni, ho traguardi” e un “senza tregua, ma senza sosta”
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