Mani Pulite, il terremoto che ha raso al suolo la Prima Repubblica.
Da dov’è partita? Da un banale caso di corruzione? Non esattamente.
Già nel 1986 il periodico “Società civile”, la rivista dell’omonimo movimento d’opinione fondato a Milano da Nando dalla Chiesa, iniziava a proporre articoli sulla corruzione, anche se ancora i tempi non erano maturi per espressioni come “Mani pulite” o “Tangentopoli”, che appunto verranno adottate nel 1992, con l’apertura dell’inchiesta.
Uno di questi articoli portava la firma di Antonio di Pietro, magistrato ancora sconosciuto ma destinato a divenire protagonista del team giudiziario (affiancato dai colleghi Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo. Armando Spataro, Francesco Greco e Tiziana Parenti). Quest’ultimo, a qualche mese dallo scoppio dell’inchiesta, propose, dalle colonne della rivista, un articolo “premonitore”:
«A me pare che più di corruzione o concussione debba parlarsi di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua e promette di consegnarlo.
Analogamente chi riceve il denaro non si mortifica più nel pretenderlo o nel chiederlo ma semplicemente aspetta, tanto sa che prima o poi arriverà. Insomma, non c’è più né l’ammiccamento da parte del corruttore (elemento tipico del reato di corruzione) né la minaccia o induzione da parte del pubblico ufficiale (elemento caratterizzante il reato di concussione): ecco perché questo fenomeno andrebbe forse meglio classificato con la formula dazione ambientale»1Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani Pulite, la vera storia, Chiare Lettere, Milano, 2012.
Pochi mesi dopo, il 17 febbraio 1992, Mani Pulite iniziava ufficialmente. Mario Chiesa, imprenditore, Presidente della storica casa di cura per anziani meneghina, il Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Partito Socialista Italiano, venne arrestato in flagranza di reato: il manager stava intascando una tangente di sette milioni di lire.
L’imprenditore arrestato decise, dopo settimane di silenzio, di iniziare a collaborare.
Il 23 marzo 1992 si svolse “l’interrogatorio fiume” di Chiesa che, di fronte a Di Pietro e al Gip Italo Ghitti, svelò come la tangente che gli era costata l’arresto non fosse nemmeno la punta dell’iceberg di un sistema radicato da decenni e che vedeva malsane collusioni tra esponenti politici di tutti i livelli e imprenditori.
Vale la pena citare la testimonianza del cronista Goffredo Buccini che, a distanza di vent’anni dallo scoppio dell’inchiesta, raccontò dal punto di vista giornalistico l’evoluzione del caso dalla Chiesa: quello che in un primo momento sembrava un banale caso di corruzione si trasformò gradualmente nel più eclatante caso della storia giudiziaria della prima Repubblica.
«Mario Chiesa l’avevano preso del resto come un magliaro, mentre cercava di buttare nel water una mazzetta da sette milioni d’allora, lirette. In quei primi giorni girava una battuta tra noi, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia: «Figuriamoci se parla!».
Al tempo, non usava. Infatti l’ingegnere amico di Bettino Craxi, se ne restò muto come un pesce nelle prime settimane a San Vittore. Tutto sommato, però, il primo arrestato di Mani pulite aveva fondati motivi per essere fiducioso e per pensare che stavolta non fosse diversa dalle altre. […] Chiesa lo sapeva. E aspettava con calma che venisse qualcuno a liberarlo. Ne sapeva insomma abbastanza per essere convinto di finire tra i salvati []. In quei primi giorni d’inchiesta, la scoperta di una seconda cassaforte segreta di Chiesa ci apparve una notizia clamorosa e definitiva.
Nemmeno Di Pietro immaginava fino in fondo dove si sarebbe arrivati. L’ingegnere della Baggina Crollò quando Craxi, sotto una pressione popolare inattesa che di lì a poco sarebbe sfociata nel terremoto elettorale del 5 aprile (crollo del pentapartito, primo boom della Lega), gli affibbiò il famoso epiteto di «mariuolo»: una mela marcia isolata, insomma.
Chiesa stava parlando, parlò per sette giorni. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori (Gabriele Mazzalveri, Franco Uboldi, Clemente Rovati, Giovanni Zaro, Claudio Maldifassi, Giovanni Pozzi, Bruno Greco e Fabio Lasagni): avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo all’ingordo ingegnere.
Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Noi stavamo nei giardinetti davanti al carcere, quando spuntò Vittorio D’Ajello, difensore di uno degli otto, e quasi strillò: «Andranno avanti per anni! Faranno centinaia di arresti!». 2Goffredo Buccini, «Da Chiesa all’avviso a Berlusconi: i segreti dell’inchiesta e di uno scoop», Corriere della sera, 15/02/2012, in Corriere della Sera, 1992-2012. Mani Pulite: l’inchiesta che ha cambiato l’Italia, 2012, pp. 12-13.
La stampa seguì con particolare interesse la vicenda, riuscendo a cogliere sin da subito l’effettiva portata di Mani Pulite:
«Dall’indagine in corso sono già usciti dati più che sufficienti per provare che la tanto bistrattata “questione morale” non era una fissazione di moralisti fuori moda, ma una forte e fondatissima richiesta della società.
I partiti hanno abbandonato ogni progettualità e ai grandi disegni dei fondatori della Repubblica hanno sostituito gli schizzi dei geometri compiacenti. Ma l’orgogliosa società civile della metropoli europea può seriamente sostenere di essere estranea all’accaduto? […] sarebbero almeno 150 gli imprenditori che a Milano si spartivano le quote di mercato dei lavori pubblici: vale davvero l’argomentazione difensiva che erano costretti a subire per restare sul mercato?
La verità è che una sorta di sordità morali era calata dal palazzo su gran parte del paese. Tutti sapevano, tutti dicevano, ma tutti erano rassegnati all’ineluttabile. Il merito dell’inchiesta di Milano è quello di aver accelerato la reazione al fatalismo. L’indagine in corso si salda con la forte domanda di cambiamento rilevata alle recenti elezioni, che i politici più avvertiti si affrettano a cogliere»3Giulio Anselmi, «La torta è finita», Corriere della Sera, 02/05/1992.
Nel 1992 lo scandalo coinvolse praticamente tutti gli schieramenti politici.
Uno tra i temi maggiormente contestati a Di Pietro e al suo team più era l’uso della misura cautelare preventiva, da molti considerato un metodo per estorcere confessioni.
Il dibattito, in particolare, si concentrò anche sull’elevato numero di suicidi tra le persone indagate: il motivo dell’insano gesto andava ricercato, a detta di molti, nei metodi d’indagine.
«A suicidarsi […] non è il camorrista interrogato dal giudice, ma l’imprenditore o il funzionario di partito finito per trovarsi in una vicenda spesso da lui neanche lontanamente ipotizzata. Dagli interrogatori di molti dei personaggi finiti nell’ inchiesta sulle tangenti risulta evidente quanto scarsa fosse la consapevolezza del reato commesso. Quasi che pagare o prendere una tangente equivalesse a posteggiare l’auto in terza fila. Una cosa sì vietata, ma non poi tanto grave»4Carlo Brambilla, «Quella stagione di suicidi che attraversa Tangentopoli», La Repubblica, 29/07/1992.