«Alla Sicilia è stato dato ogni bene materiale, se vuolsi, ma le è stata negata la giustizia. Alla Sicilia è stata aperta la via ad ogni maniera di arricchire, se si voglia, ma le si è spianata la via verso la propria corruzione. Le si è imbellettato il viso, lasciate che io lo dica, ma le si è insozzata l’anima» 1https://storia.camera.it/regno/lavori/leg12/sed130.pdf
Il primo deputato a parlare apertamente di mafia, alla Camera, non viene dalla Sicilia, ma è calabrese. La prima voce onorevole a lanciare con tono alto e fermo un j’accuse contro la corruzione dei rappresentati dello Stato è quella di Diego Tajani, originario di Cutro (Crotone).
Il discorso che Tajani – magistrato e avvocato difensore di Crispi e Garibaldi – pronuncia l’11 giugno del 1875 infrange un tabù potente e rappresenta uno spartiacque imprescindibile nella storia della lotta alla mafia. Una guerra, la sua, iniziata già in magistratura a Palermo e portata sino a Montecitorio. Dalla Sicilia a Roma.
Un’analisi, quella di Tajani, semplicemente antesignana:
«La mafia non è un’associazione nel senso grammaticale della parola, poiché non ha un Codice, non ha regole, non ha regole, non ha tutte quelle formule con le quali si entra in queste tenebrose associazioni; ma siccome i mafiosi sono il vivaio dei malfattori, ne viene che quando si deve commettere un reato si cercano, si avvicinano, si affiatano, e quindi ne nascono i vincoli e le simpatie reciproche. I mafiosi non hanno assolutamente regole, nel vero senso della parola, ma è indubbio che non riconoscono la giustizia sociale […] la mafia, infine, ha una giustizia a sé e talvolta i suoi verdetti sono eseguiti presto e inesorabilmente»2Ibidem
La disinformazione (voluta) in merito regna sovrana:
«Un giorno i preti, i reazionari, gli autonomisti cospirano e sono prossimi all’attentato; scorsa una settimana, di cospiratori, di reazionari, di preti, nessuno ha udito parlare; un giorno i briganti brulicano per la campagna e minacciano quasi le porte della città; il giorno seguente di briganti non si parla più, se non per annunciare che tutti cascano nella pania come tanti uccellini; ieri era l’inferno, e tutti ne lamentavano e giù una pioggia di lettere, corrispondenze interpellanze e che so io; oggi è il paradiso terrestre, e tutti ne sono lieti, salvo a ricominciare domani in senso inverso»3Ibidem
L’analisi di Tajani è di una profondità disarmante, specie durante la parentesi dedicata alla “rivolta del sette e mezzo”: pochi anni prima, a Palermo, la rabbia di oltre 35 mila siciliani esplose feroce contro il neocostituito regno unitario, dalle ristrettezze economiche alle imposizioni culturali (come l’abolizione dei festeggiamenti in onore della patrona Santa Rosalia), protraendosi appunto per una settimana e mezza giornata. Tajani punta il dito contro il governo ed è molto severo sulle conseguenze della gestione dei disordini in Sicilia, a suo dire irreversibili:
«Dopo la rivolta del 1866 vi fu un diluvio di disposizioni cozzanti fra loro. […] dopo la guerra vennero i tribunali militari, i quali fecero numero sterminato di processi, e quando la posizione era compromessa, […] si annullano ad un tratto i tribunali militari, ed i tribunali civili rimasero imbarazzati, e così ne rimase sfatata la giustizia militare e la giustizia civile. Poi cominciò un continuo cangiare di autorità e finalmente si alzò la bandiera definitiva. E sapete che cosa stava scritto su questa bandiera? «Signori Isolani, voi ci portate il broncio, perché abbiamo urtate le vostre abitudini: ebbene, ve le lasciamo tutte, comprese la pessima». Il che sapete che cosa significa? Se c’è loto che vi giunge al ginocchio, noi saremo lieti vi giungerà sul viso. E questo, mi si permetta che lo dica, non fu atto di buon Governo. Poi si domandò: ma come facevano sotto i Borboni? Allora si andava coll’oro in mano; i galantuomini erano rispettati. […] Facciamo lo stesso! […] Si chiamarono di nuovo tutti quei sorci che erano scampati dalla tempesta; furono chiamati a raccolta, e si fece, o signori, un danno gravissimo. Qui è il peccato vero del Governo, […] se ne raccoglieranno per lunghi anni miserie e dolori. […] Fu questo […] il più grave colpo ad istituzioni fresche, allora introdotte nel paese […], si fece credere che le condizioni indispensabili alla vita della tirannide fossero ancora le condizioni indispensabili per la vita della libertà!»4Ibidem
Gli studiosi moderni, dopo un secolo e mezzo, riconoscono ancora a Tajani una prospettiva avanguardista. Una tra le voci più autorevoli è quella di Maurizio Mesoraca, fondatore di un centro studi sullo statista:
«Tajani dimostrò un alto senso delle istituzioni, rompendo con l’idea borbonica dello Stato al quale erano ancora legate parti delle classi dirigenti e intellettuali dell’epoca. Tajani […] si distinse anche per l’impegno verso il territorio nel quale fu eletto, in un’ottica meridionale […], in chiave di rottura con l’occupazione e la gestione dei Borboni e per favorire il riscatto del Sud nel quadro della modernizzazione dell’Italia. Sul piano della laicità dello Stato, egli condusse una battaglia a favore di un rapporto di reciproca autonomia fra Chiesa cattolica e Stato italiano e come Ministro di Grazia e Giustizia e fece approvare l’obbligo del matrimonio civile prima di quello religioso»5Antonio Anastasi, «Nasce a Cutro il centro studi sul primo statista antimafia», Il Quotidiano del Sud, 08/06/2020