di CONSOLATA MAESANO
Joe Petrosino appare molto diverso dal tipico poliziotto americano: l’aspetto tarchiato, così diverso dai quello statuario dei colleghi prevalentemente ebrei o irlandesi e il cognome svelano subito le origini del primo poliziotto italiano degli Stati Uniti.
Nato nel piccolo comune salernitano di Padula, Petrosino emigra con la famiglia negli States ad appena 13 anni. Lì il ragazzo si rimbocca presto le maniche: durante il giorno alterna il mestiere di lustrascarpe con quello di strillone, mentre la sera studia l’inglese; americanizza il suo nome, abbandonando l’italiano Giuseppe; ottiene la cittadinanza americana e un posto di lavoro nella nettezza urbana (ai tempi un dipartimento della polizia).
Diventa informatore per le forze dell’ordine, sempre più in difficoltà nel gestire l’imponente flusso migratorio. Le barriere culturali e linguistiche tra le istituzioni e gli immigrati favoriscono la criminalità nella Little Italy, ma Joe Petrosino (pur avendo intrapreso una strada opposta) parla la stessa lingua dei criminali, proviene dal loro mondo.
«Oggi Petrosino ind’ ‘a minestra»: così si spargeva la voce del turno del poliziotto americano (anzi, italiano) tra i quartieri dei suoi connazionali (il Petrosino, nella totalità dei dialetti meridionali, è il prezzemolo). Dotato di grande acume investigativo, sviluppa una metodologia moderna ed efficace, che lo porta a collezionare 2500 criminali arrestati e 500 espulsi. Stimato nel proprio ambiente, la sua carriera avanza rapidamente accumulando promozioni su promozioni, sino ad arrivare alla direzione dell’Italian Branch, un dipartimento di polizia composta da italiani e specializzato nella lotta alla criminalità italoamericana e, in particolare alla mano nera, una famigerata organizzazione dedita al racket.
La lotta contro il crimine lo porta in missione a Palermo, alla ricerca dei casellari giudiziari e di indizi per ampliare le indagini. Sull’iniziativa- che ha il benestare di Roosevelt ed è finanziata da banchieri e affaristi come Rockefeller- dovrebbe vigere il massimo riservo, ma la stampa ne dà immediatamente notizia.
“Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire“: il console americano, da Palermo, affida queste frasi lapidarie a un fax, la sera del 9 marzo del 1909. A nulla vale la ricompensa di 10 mila lire per incentivare eventuali testimoni: nessuno ha visto niente. Al funerale di Petrosino, a New York, partecipano 250 mila persone.
La polizia arresta il boss Vito Cascio Ferro, membro di un gruppo di falsari che Petrosino aveva già arrestato sei anni prima della sua morte. Il nome di Cascio Ferro compare tra gli appunti del poliziotto americano rinvenuti dopo la sua morte, mentre nelle tasche del “pericolosissimo criminale”, come lo definisce Petrosino, si trova una foto della vittima. Petrosino stava programmando su un viaggio a Bisacquino, il paese palermitano feudo del boss. Forse Don Vito era coinvolto negli espatri clandestini, forse Petrosino stava indagando sulla falsificazione dei passaporti? Cascio Ferro viene però rilasciato. L’onorevole Domenico De Michele Ferrantelli garantisce: la sera dell’omicidio Cascio Ferro è stato suo ospite a cena. Finirà in prigione anni dopo, per il pugno di ferro fascista. Dalla sua cella dichiara alla stampa di aver ucciso un solo uomo in tutta la sua vita, «disinteressatamente».